IL CANTO BENEVENTANO
di Alessandro De Lillo

“A partire dall’Alto Medioevo la supremazia del canto “gregoriano” fu saldamente sostenuta dalla convizione che questa musica fosse il frutto della combinazione fra la creatività e il talento di San Gregorio Magno […] Quale che sia l’origine del canto gregoriano, appare ormai chiaro che il desiderio dei Carolingi di uniformare la liturgia e la politica nel regno ebbe come risultato l’imposizione di questo repertorio in tutto il territorio […] Un’enorme quantità di musica venne dunque spazzata via per l’impulso di queste spinte unificatrici e, come gli studi stanno gradualmente rivelando, il quadro della pratica musicale nell’Europa altomedievale doveva essere certamente molto più ricco di quanto si potesse precedentemente supporre”.

Con queste parole Thomas Forrest Kelly apre il suo magnifico The Beneventan chant (Cambridge University Press, 1989, un’ampia selezione del volume è disponibile su Google Books), in cui dimostra che il canto gregoriano non era certamente la più antica forma di canto cristiano; altri dialetti musicali locali, come il canto beneventano, esistevano prima di essere cancellati dalla volontà di uniformare la liturgia nel regno carolingio.

Le fonti manoscritte che preservano il canto beneventano, oggi, non sono più di una novantina, molte delle quali frammentarie o palinsesti, e neppure particolarmente antiche; nonostante ciò possediamo uno sguardo piuttosto articolato su quello che doveva essere il repertorio beneventano, con le sue particolarità, e la relativa liturgia.

I più importanti testimoni sono senza dubbio i manoscritti Ben38 e Ben40, entrambi conservati presso la Biblioteca capitolare di Benevento. In essi possiamo osservare un fenomeno particolare, vale a dire la presenza di due diversi formulari – gregoriano e beneventano – per alcune festività (quelle che Kelly chiama “i doppioni”), a dimostrazione del fatto che in un determinato momento storico, cioè nella prima metà dell’XI secolo, si fece un tentativo estremo per conservare una traccia del repertorio locale che stava scomparendo, ponendolo come alternativo a quello gregoriano, che al contrario si diffondeva sempre maggiormente.

Per esemplificare quanto stiamo affermando, possiamo osservare il f. 71 del manoscritto Ben40 [Fig. 1], dove è contenuta la parte finale della messa gregoriana per l’Ascensione e, di seguito, l’inizio di quella beneventana: al primo rigo della pagina possiamo leggere le parole “vestibus albis qui et dixerunt”, che corrispondono alla parte finale del versetto Cumque intuerentur, dell’Of. Viri Galilaei, poi alle due righe seguenti il Co. Psallite Domino. Si tratta di due dei brani gregoriani normalmente previsti per tale festività.

Dal quarto rigo ha inizio l’ingressa beneventano dell’Ascensione (essendo un repertorio di origine longobarda, il beneventano ha conservato alcune terminologie ambrosiane, come appunto ‘ingressa’), Ecce sedet in medio. Il proprium beneventano proseguirà nelle pagine successive con due Alleluia, due offertori e due communio, elaborati in stile beneventano e caduti nell’oblio, come il resto del repertorio, dopo l’adozione del canto gregoriano. I due formulari sono collocati dunque uno di seguito all’altro, senza rubriche esplicative, e gli studiosi si stanno interrogando: le due messe erano alternative? Erano celebrate entrambe, ma in tempi diversi? O forse in luoghi diversi, destinati a due culti separati? Al momento non possediamo risposte certe; possiamo concludere, con Kelly, auspicando che un giorno, da un armadio polveroso o da un archivio dimenticato, possa magari emergere un messale beneventano completo o un altro testimone manoscritto che possa accendere una nuova luce su questo affascinante e misconosciuto repertorio.

FIG. 1