Quarta Domenica d'Avvento (C)

GUIDA ALL'ASCOLTO
di Fulvio Rampi

La IV domenica di Avvento era segnata, negli antichi libri liturgici romani, “dominica vacat” (mancante), perché la vigilia, iniziata la sera precedente, si concludeva all’alba con la messa, che costituiva l’ufficio liturgico domenicale. A partire dal sec.VIII, quando i riti della vigilia furono anticipati al sabato mattina, la domenica fu dotata di messa propria, prendendone i testi dalle ferie precedenti (Righetti, Storia liturgica). Tale anomalia nasce dal fatto che la III settimana di Avvento coincideva con le “Tempora d’inverno”, ossia con una delle cosiddette “Quattro Tempora”, che significa “quattro stagioni” e che designava, pur nelle differenti modalità di evoluzione storica, il primo mercoledì, venerdì e sabato di ciascuna delle stagioni. Questi giorni, caratterizzati dalla preghiera e dal digiuno, servivano come date per le ordinazioni dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi (Richter, Breve introduzione all’anno liturgico). Soppresse nell’attuale liturgia, le “Quattro Tempora” restano una viva testimonianza di attaccamento alla terra, espresso con spiccato carattere di solennità rurale; una sorta di “festa delle stagioni”, per attirare sui frutti della terra le benedizioni di Dio e per ringraziarlo della buona raccolta. La liturgia delle “Quattro Tempora” si fa simbolo di tale ricchezza di doni, addirittura modificando la sua consueta struttura con l’aggiunta di una lettura il mercoledì (dunque di un corrispondente graduale) e con lo schema “generoso” di ben sette letture (intercalate da graduali, inni e tractus) nella celebrazione del sabato.
La nostra IV domenica di Avvento risultava così messa un po’ in ombra da questa settimana di ringraziamento solenne e speciale. Da “dominica vacat” è diventata, come si è detto, ultima domenica di questo tempo liturgico, ma senza la dotazione di nuovi testi per i canti del proprio; questi, infatti, vennero presi a prestito dalla messa del mercoledì precedente e adattati alla liturgia domenicale. La messa della feria IV (il mercoledì, appunto) delle Tempora di Avvento merita particolare attenzione: era detta, in epoca medievale, “Missa aurea beatae Mariae” perché pensata con intonazione spiccatamente mariana, nella quale viene fatta memoria della profezia di Isaia (cap 7,14) sulla vergine che concepirà e darà alla luce l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Ritroviamo pertanto, nei canti propri di questa messa, una evidente impronta mariana, in particolare con l’offertorio “Ave Maria” e con il communio “Ecce virgo concipiet”. L’introito “Rorate coeli”, dal canto suo, pur costituendo parte integrante e “titolo” di questa messa, merita qualche altra osservazione che tentiamo di riassumere.
Il testo di questo brano, come si vede, è la versione fedele di un versetto di Isaia (cap.45,8). Contrariamente a quanto si è visto in altri contesti – in particolare nella II domenica di Avvento con l’introito “Populus Sion” – in questo caso non si è resa necessaria alcuna operazione sul testo biblico: non ci sono centonizzazioni, adattamenti o modifiche del testo, che si presenta esattamente come compare nella versione latina della Vulgata di Girolamo. A ben vedere, però, possiamo dire che la vera modifica l’ha apportata lo stesso Girolamo all’originale testo ebraico: controllando le recenti traduzioni della Bibbia (dalla Neovulgata latina all’ultima edizione italiana CEI) che si basano appunto sul testo originale in lingua ebraica, notiamo per questo contesto due varianti importanti: “iustitiam” (la giustizia) prende il posto di “iustum” (il Giusto) e “salvationem” (la salvezza) sostituisce “Salvatorem” (il Salvatore). La traduzione già in chiave cristologica di Girolamo, appare qui in tutta la sua evidenza e in tutta la sua forza espressiva: i concetti di giustizia e di salvezza si incarnano nella “persona” del Giusto, del Salvatore. La profezia di Isaia si incarna nella figura di Cristo, che, non a caso nel mercoledì delle Tempora invernali, diviene “frutto della terra” e dono delle nubi del cielo. L’Avvento nella carne, mistero della incarnazione, viene qui celebrato in tutta la sua umanità ed è di conseguenza associato, negli altri canti del proprio appena citati, alla figura della Vergine madre.
L’architettura sonora pensata dal canto gregoriano per questo testo di speciale intensità è sorprendente. Possiamo leggervi, ad un primo sguardo generale, intenti “programmatici” nella messa in musica di taluni incisi: come “desuper” (dall’alto) si muove nelle tessiture più acute, così “pluant iustum” (piovano il Giusto) è realizzato in contesto discendente attraverso una “pioggia” di note; allo stesso modo, nella frase conclusiva, la “terra” coincide con la zona più grave della costruzione melodica e determina, in rapporto alla struttura della prima frase, un chiaro timbro di “protus autentico”, quel I modo da cui parte la classificazione modale dell’octoechos gregoriano. Ma che questo introito sia ben fondato in I modo, è altresì dichiarato in modo ancor più netto ed inequivocabile soprattutto dall’incipit dell’intero brano. L’imperativo “Rorate” (Stillate) è proclamato con una ben nota formula proprio di I modo; una formula definita “di accento”, ma che, in realtà, non si limita ad una semplice sottolineatura di una sillaba tonica. Si tratta, invece, di un vero e proprio timbro espressivo, dichiarato da subito e additato a vertice accentuativo di tutta la composizione e che, come tale, colora l’intero introito, condizionandone in modo univoco l’impianto modale.
All’imperativo “Rorate” viene dunque riconosciuto uno spessore retorico del tutto particolare; altra cosa, evidentemente, dall’imperativo apostolico di Paolo che è risuonato nell’introito della III domenica: su quel “Gaudete” (Rallegratevi), infatti, non viene utilizzata questa formula “definitiva” di accento perché in quel caso, come si ricorderà, la vera meta accentuativa è posticipata all’avverbio che chiude la prima semifrase: “Gaudete in Domino semper” (sempre).
La forza espressiva della formula su “Rorate”, diviene simbolo degli ultimi giorni di un’attesa che si fa sempre più trepidante e che la liturgia dell’Ufficio Divino riassumerà in un altro ben noto contesto formulare, la melodia-tipo che risuona incessantemente nelle ultime ferie di Avvento con i testi diversi delle celebri antifone al Magnificat, dette “antifone O” dal loro incipit (“O Sapientia, O Emmanuel, O Adonai…..). L’antica monodia liturgica, insomma, ci avverte con intensità crescente che il tempo della nostra salvezza è vicino e si fa voce della Chiesa che invoca la venuta del suo Signore.